Le notti bianche di Pachuca ovvero Cielito lindo, un bradipo in Messico – Seconda parte –

Compendio semiserio alla conoscenza della città di Pachuca e del popolo messicano.
Non c’è uomo che rassomigli a un altro uomo.
Honoré de Balzac
I personaggi
L’autista personale
Per gli spostamenti, l’organizzazione mette a disposizione i cosiddetti transportation, piccoli van da sette posti che fanno la spola dallo stadio all’albergo.
Si concorda un orario e si va. O si torna. Tutti sono marchiati dal logo dell’evento e sono della stessa casa sudcoreana, sponsor della federazione. Ogni van un autista dell’organizzazione.
Tutti, tranne uno.
Non mi chiedete perchè. Ma lui è avulso dal sistema.
Occhiali da sole. Automobile Chrysler Suburban. Vetri oscurati.
Tutto fuorchè un’automobile adatta a fare del trasporto.
Hector sembra uscito da un film con Benicio Del Toro. L’immaginazione viaggia spedita: Tijuana sparatoria tra narcotrafficanti. E, sullo sfondo, la Suburban con i vetri oscurati.
Hector fa da autista a tre persone in tutto. Io sono uno di quei tre.
Mi sento molto sicuro.
Il maitre del ristorante
L’albergo sembra caduto dal nulla in un desolato avvallamento. La zona è fuori mano rispetto alla città. Di fronte all’albergo un centro congressi e un centro commerciale.
L’albergo è nuovo. Una piccola bottega per lo shopping. Una palestra piccola piccola.
Un ristorante di proprietà di un italiano, personale messicano, cucina italo-messicana.
Tra le specialità della casa, le tagliatelle al telefono (?), le fettuccine Alfredo e le lasagne bolognesa.
Il maitre è un uomo sulla quarantina. E’ triste. Molto professionale. Occhiali, giacca e cravatta d’ordinanza, si aggira per la sala con l’aria di chi non sa cosa fare. Le braccia penzoloni. Lo sguardo non molto sveglio.
A colazione consegno il mio voucher con il numero della camera e il mio cognome al fine di ottenere, allo stadio, il mio cestino del pranzo.
Mi guarda inebetito. Non sa cosa fare, ma soprattutto non sa cosa stia facendo io.
In quel preciso istante ho capito che non avrei fatto pranzo.
E così è stato.

Il volontario Arturo e il portiere attacchino
Pienotto. Sguardo sveglio. Parla un inglese perfetto e mi accompagna all’ufficio accrediti. Parla, parla, parla…tantissimo. Arturo volontario volenteroso e logorroico sembra padrone della situazione ed esperto conoscitore di Pachuca e dello stadio.
Attraversiamo lo stadio El Hidalgo detto anche Huracan e mi racconta della sua squadra del cuore, il Pachuca, e dei grandi giocatori che ci sono nelle gigantografie esposte nella pancia dell’impianto sportivo.
Mi soffermo davanti alla foto di un portiere, figurine Panini…ma non ricordo il nome…so che è boliviano…USA1994…uhm, uhm…Arturo mi guarda incredulo e chiede: Ma ti ricordi di Carlos Trucco? E io rispondo che sì, il volto mi è familiare ma che non associavo il cognome.
Non faccio in tempo a dire una parola che mi accompagna verso gli uffici e mi dice: Vieni, ti presento una leggenda. Señor Trucco…
Davanti a me, Carlos Trucco, mediocre portiere della Bolivia ai Mondiali statunitensi.
Piacere. Piacere. Di dove sei? Italia. Ah…mio bisnonno era piemontese…ma io non parlo l’italiano.
Lo trovo nell’antistadio mentre attacca uno dei manifesti della competizione: tuta consunta, sguardo triste, un mezzo sorriso.
Il portiere attacchino.

ilbradipoerrante

Di Torino, amante di calcio e sport, laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Se rinascessi vorrei la voleè di McEnroe e il cappotto di Bogart. Ché non si sa mai.

Ti potrebbe interessare anche...