Let’s play two

La prima volta che li ascoltai fu nell’autunno del 1991.
L’album era Ten, eravamo travolti dal grunge rock proveniente da Seattle, e non eravamo consci che, nel nostro piccolo, stavamo assistendo ad una piccola rivoluzione.
Non avevamo di certo lo spirito e la spinta vitale degli anni Sessanta ma, in cuor nostro, capimmo che la musica iniziava ad essere qualcosa di più di un semplice passatempo.
Galeotta la cassetta, galeotto fu il cd di quell’album che fu una vera e propria folgorazione.
Sono passati 25 anni da Ten, sono passati tanti dischi sui miei piatti, ho cambiato amori, automobili, vestiti e i Pearl Jam sono sempre stati la colonna sonora della mia vita.
Ci sono stati nei momenti felici, in quelli più tristi, nelle bevute in cima a Villa Genero con Enzo e Fulvio, mentre studiavo per gli esami universitari, mentre viaggiavo in treno o in aereo, mentre mi trovavo lontano da casa.
A Torino 2006, Milano 2014, Firenze 2017 li ho visti dal vivo, in tre concerti uno più bello dell’altro e poi la colonna sonora Into the Wild, le ballade che ti fanno innamorare, il rock disperato e la grinta di Vedder, quella carica e quell’adrenalina che ti mettono in un angolo e non ti danno fiato fino all’ultimo riff di chitarra.
La voce di Vedder, graffiante, roca, invecchiata come un Barbaresco che lascia la lacrima sul bicchiere e ti riempie il palato con quel gusto corposo e speziato, credo sarebbe necessario studiarla in qualche università.
Ritorno adesso dalla visione del docu-film Let’s play two che racconta la passione di Eddie Vedder per la squadra della di baseball della sua città e il conseguente concerto del 2016 nel mitico Wrigley Field dove i Cubs disputano le partite casalinghe.
Non starò a raccontarvi la storia della franchigia di Chicago, vi basti sapere che è stata 108 anni senza vincere le World series di Baseball.
Ed è qui che conosciamo la passione di Vedder, le emozioni per quello che “non è soltanto uno sport”; il Vedder tifoso che conosce a memoria vita-morte-miracoli dei suoi idoli e ripercorre la sua storia d’amore con la sua squadra e la sua città.
Dalla sua prima volta a Wrigley Field, a 7 anni, Vedder (in splendidi filmati di repertorio) racconta cosa sono i Cubs, che cosa significa essere tifosi di una squadra decisamente non vincente.

Don’t let anyone say that it’s just a game
For I’ve seen other teams, and it’s never the same
All the way, Eddie Vedder

Lo storico bar, i tetti delle case adiacenti all’impianto da cui la gente assiste alle partite, la bandiera issata all’altezza della ferrovia sopraelevata che indica se i Cubs hanno vinto (W) o hanno perso (L) e serve ai viaggiatori che rientrano a Chicago per sapere come è andata l’ultima partita.
Si intrecciano musica e giocate tra le basi del diamante, momenti toccanti di un concerto storico, con Vedder visibilmente emozionato, Gossard che si diverte come un bambino in un negozio di giocattoli e Mike McCready con una maglietta pazzesca (Tour dei Clash, Sandinista, ndr) calato nel personaggio del rocker toutcourt.
Quello che mi ha sempre colpito nei Pearl Jam (e in Vedder) è l’assoluto senso di familiarità lontanissimo dal glamour di molte band ed è la cosa che li rende normali, che li fa sentire vicini al loro pubblico, in una parola, umani.
Quando ho detto a Caterina che Vedder e i Pearl Jam torneranno in Italia nel 2018, lei mi ha detto, ancora una volta: “Vai pure, a me non piacciono.”
Grazie amore, ma almeno una canzone lo so che ti piace. Almeno questa e tu sai perchè.

ilbradipoerrante

Di Torino, amante di calcio e sport, laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Se rinascessi vorrei la voleè di McEnroe e il cappotto di Bogart. Ché non si sa mai.

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